Stanotte ho scritto un racconto. L’ho scritto in sogno.
Svegliandomi più volte, la febbre che calava portava sete, a ondate e
ogni volta, tornato a letto, la bocca rinfrescata e la gola lavata
dall’acqua, riprendevo a scrivere da dove mi ero interrotto.
Ho scritto un racconto, ma proprio scritto scritto.
Nel sogno ero alla tastiera, come lo sono adesso. E nasceva la storia
come sempre da sola, perché probabilmente mi viveva già da tempo dentro.
La storia no, non la ricordo tutta adesso. So che ad ogni ripresa del
sogno si arrotondava e faceva tesa, perfetta, spessa. Viva di carne e
sogni, il sogno dentro il sogno era dilatato a colmare dita, tastiera e
schermo. Ero io il foglio.
Non riesco mai a ricordare le storie al risveglio, o per meglio dire sì
che le ricordo. Ma hanno salti temporali, vuoti nella logica del giorno
perché ci sono storie nate solo per vivere la notte, i suoi silenzi, i
suoi bui caldi come abbracci di amanti e le sue lucide luci dilatate in
infinito tempo. I sogni sono lampi.
Ricordo che scrivevo.
Ho sognato di scrivere un racconto. Infatti.
Immaginavo i nomi che avrei dato ai personaggi. Daniele e Silvia. Che
poi cominciano a vivere così i miei racconti.
In fin dei conti due nomi come tanti e i nomi nemmeno sono a volte, per
la maggior parte di chi legge poi, così importanti.
Ho avuto un sonno un po’ agitato e non era solo per la febbre questa
notte. Era il sonno che evocava un altro sonno e un’altra notte in cui
dormii così poco da stupirmene io stesso il giorno dopo. Di quello
svegliarmi carico di sogni.
Di aver dormito poco, sognato molto e non aver nemmeno sonno. Era anche
il sogno di un altro sogno e di un altro sonno.
Ho scritto un racconto. In cui i protagonisti si ritrovano. Con una
nuova consapevolezza, dopo un distacco.
Io scrivo spesso di incontri e di saluti, in fondo. Perché li vivo, e
soffro, e sento e me ne lascio derubare il cuore e l’animo come da poche
cose nella vita. In ogni addio, in me vive un fantasma e in qualche
modo, come so farlo, per quello che ci riesco, anche scrivendone, io lo
blandisco e lo prego che si volga e torni. Ma nel racconto della scorsa
notte era diverso.
Non so in quale dei risvegli e della ripresa del mio sogno sia successo.
L’uomo e la donna si ritrovavano.
Era un bel sogno.
Si ritrovavano. Ed era così sereno e luminoso il nuovo giorno che
ricordo che Daniele indossasse occhiali da sole scuri per non ferirsi
gli occhi. Anche per nascondere la fragilità del suo guardarla,
avvolgerla, cingerla, rubarla al mondo, farne sua carne e corpo, sua
ancora, e ancora, in quel momento forse.
E come la ripresa di un sogno, se lo riprendi dopo un attimo di
risveglio, trova perfetto incastro, così anche loro. Di solito
riprendono nel sonno solo i sogni neri, quelli che non te ne liberi
nemmeno svegliandoti o sudando. Nel sogno mio no.
Era un bel sogno. Di quelli che non puoi comandare ma vengono per
generosità del respiro e dell’abbandonarsi senza ansia al vento.
Erano in una città sconosciuta a entrambi.
Camminavano per una strada che non aveva nome, eppure sembrava a ognuno
di loro la propria città di sempre, guardavano le vetrine di un negozio
e lui entrava, comprava un pezzo di pane alle olive e lo regalava
ridendo alla donna. Persino i negozi, con le bocche aperte sulla strada,
gli odori di cibo, tessuti, metalli, erbe, sembravano sorridere al loro
nuovo incontro.
L’avevano voluto. Desiderato. Tanto.
Da averne avuto paura, lei glielo diceva, nel sogno.
Quanto lo avessero voluto lo percepivi, scrivendone nel sogno, da come
li vedevi camminare per strada, stretti. Da come sorridevano alle
persone sconosciute che incontravano per caso, camminando. Da come lei
aveva preso la sua mano e lui aveva stretto le dita lunghe, affusolate,
quasi fragili nelle sue accogliendole.
Lo percepivi da come guardandoli mentre dormivi erano belli.
L’ansia di lui di farla sentire accolta, avvolta, protetta, tenendola
per mano quasi avesse avuto paura che lei potesse perdersi e svanire per
sempre ad ogni istante. E lei, che sembrava farsi includere in quel suo
strano modo di abbracciarla stretta, quasi volesse farsi così piccola,
aderente, perfettamente combaciante col suo fianco. La morbidezza del
possesso dei due amanti era così perfetta che nel sogno ho anche dovuto
fermarmi, lo ricordo. Di avere avuto difficoltà a trovare le parole per
raccontare della loro nuova stanza. Ricordo i loro occhi nell’attimo in
cui aprirono la porta e in quello in cui la chiusero, chiudendo il mondo
fuori, alle loro spalle, nuovamente.
La stanza no.
Non la ricordo ora.
Non ne ricordo l’arredo, il piano, nemmeno la scala, se scala ci fosse
stata a separarli dal loro abbraccio. Non ricordo che volto avesse il
congierge del piccolo albergo che avrebbe chiuso loro, consegnandogli le
chiavi, dentro il suo scrigno a noleggio. Ricordo lui però, che
carezzava sul ventre di lei, stesa nuda sul letto, aperta al suo sguardo
e al desiderio, un piccolo segno.
Era la firma, una piccola esse nera, simile a un serpente, sul pube
glabro, a lato, poco sopra il bocciolo del sesso schiuso e lucido di
voglia, della coscienza di una necessità.
Di un segno che fermasse anche sul corpo di lei, firmandolo, il loro
tempo. Di un pegno di quelli che si scambiano gli amanti, quando hanno
deciso che si può volare e che non servono le ali al corpo e ai cuori
per salire, sollevarsi, e che a volte anche le parole non bastano a dire
e raccontare, gridare tutto. E allora per stringersi più forte e gridare
con il cuore occorre altro.
Era la firma al loro appartenersi, libero, impudico. Senza paure,
affanni. Rimorsi. Dubbi.
Così, per capriccio della sorte e necessità della vita di entrambi.
Ecco, stanotte ho scritto. Questo.
Ho solo cercato riscrivendolo adesso di dare a un sogno felice, scritto
in più risvegli, un filo che avesse la logica delle parole che si usano
di giorno perché non so davvero scrivere con quelle che animano i sogni
nella notte.
Quelle non si possono scrivere, lo confesso.
Si vivono.
Soltanto.
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